EUROPA L’Europa disgregata e le risposte dell’economia Luca Ricolfi Sono ormai passati più di sedici anni da quando, nel marzo 2000 a Lisbona, il Consiglio Europeo ebbe a proclamare che l’Europa ambiva a «diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale». Quelle parole, pronunciate nel cuore dell’ultimo lungo periodo di crescita ininterrotta del Pil mondiale (il dodicennio 1995-2007), suonano oggi vagamente fuori luogo e fuori tempo. Nel periodo che ci separa dai sogni di Lisbona l’economia della Cina è cresciuta a un tasso medio annuo che sfiora il 10%, l’India al 7%, l’Africa oltre il 5%, l’America latina oltre il 3%. Quanto alle economie moderne, più o meno «basate sulla conoscenza», la crescita media ha superato di poco il 2%, ma con una chiarissima e netta gerarchia fra le varie aree dei Paesi Ocse: i Paesi extraeuropei sono cresciuti al 2,9%, i Paesi europei senza euro al 2,5%, i Paesi europei dell’Eurozona all’1,5% scarso, un ritmo che confina pericolosamente con un regime di stagnazione. Il nucleo dell’Europa, quello che ha fondato la Comunità europea e promosso la nascita dell’euro, pare diventato l’area «meno dinamica del mondo». Su questo insuccesso economico dell’Europa si sono innestati i due grandi drammi che, da qualche anno, vanno stabilmente in scena nelle nostre vite: la crisi della Grecia e l’ondata migratoria. Due drammi che una classe dirigente europea divisa e confusa non pare minimamente in grado di affrontare. Se questo è quel che è successo e sta succedendo, non possono stupire più di tanto i risultati del dossier sull’opinione pubblica europea, curato dalla Fondazione David Hume, che Il Sole 24 Ore pubblica oggi. Quel che colpisce, tuttavia, non è solo la forza delle correnti euroscettiche, ma quanto lontana nel tempo sia la loro origine. Un’occhiata alla traiettoria dell’euroscetticismo mostra nitidamente che la svolta nell’opinione pubblica non è avvenuta negli ultimi anni, sotto la pressione della crisi economica e dei flussi migratori, ma risale grosso modo agli anni della dissoluzione dell’impero sovietico. Se il primo decennio dell’Unione europea (dal 1979 al 1989) è stato un periodo di consenso crescente alle istituzioni comunitarie, i 25 anni successivi, pur fra qualche oscillazione, sono stati anni di crescita dei sentimenti antieuropei, soprattutto nelle loro espressioni e varianti di destra. E alla crescita dei sentimenti si è accompagnata l’ascesa di decine di partiti più o meno xenofobi e populisti, più o meno antisistema, ma sempre invariabilmente accomunati dall’ostilità nei confronti della costruzione europea, degli immigrati, della burocrazia di Bruxelles. Sulle cause generali di questa evoluzione (o involuzione) dell’opinione pubblica europea c’è un relativo accordo fra gli studiosi, ma si tratta di un accordo generico e non privo di sfumature e contrasti (vedi in proposito l’interessante analisi di Daniel Gros, pubblicata sul Sole 24 Ore il 19 maggio). Nessuno nega che la globalizzazione, la crisi economica, le ondate migratorie, le divisioni dei politici europei su tutte le materie calde (dalla politica economica alla questione delle frontiere) abbiano avuto un ruolo significativo nel disamorare le opinioni pubbliche dei vari paesi, ma nessuno sa ancora con ragionevole certezza quale sia stato l’ingrediente, o il cocktail di ingredienti, che ha avuto il ruolo decisivo nello smantellare il sogno europeo. Quale che sia stato il mix che ha fatto deflagrare la crisi europea, almeno un punto pare incontrovertibile: la classe dirigente europea, la stessa che 16 anni fa aveva baldanzosamente enunciato la strategia di Lisbona, non pare altrettanto disponibile ad enunciare una diagnosi, un bilancio, un resoconto disincantato. Sanno di aver fallito, perché è solo nel cuore dell’Europa che l’economia non è ancora uscita dalla crisi, ma non paiono interessati ad interrogarsi su che cosa non abbia funzionato. Eppure è di questo che i popoli europei avrebbero un disperato bisogno, per poter pensare il futuro, un futuro che non sia fatto solo di incertezza. Se, a dispetto del permanente lamento per la crisi, il resto del mondo ha ripreso a crescere e l’Europa ancora balbetta, è inevitabile chiedersi: perché? Sappiamo che le risposte a questa domanda sono numerose e divergenti. C’è chi invoca minore austerità, e pensa che ancora un po’ di debito faccia bene all’economia. C’è chi vorrebbe mettere in comune il debito pubblico europeo. C’è chi, tutto al contrario, crede che solo con bilanci in ordine potremo tornare a crescere. C’è chi pensa che la chiave di tutto siano gli investimenti pubblici. C’è chi si aspetta che la salvezza venga dai tedeschi, quando si decideranno a fare debito e aumentare i salari. C’è chi fa notare che le tasse sono troppo alte, e chi sottolinea che il welfare europeo è divenuto insostenibile. Per non parlare della crisi dei migranti: c’è chi vorrebbe rimandarli a casa, e chi vorrebbe tenere le porte sempre aperte; c’è chi vorrebbe proteggere le frontiere esterne dell’Unione, e chi pensa che l’imperativo numero uno sia salvare vite umane in mare. Il guaio è che tutte queste opinioni non dividono solo o tanto cittadini e studiosi, ma dividono innanzitutto i politici europei. E la divisione crea paralisi, frustrazione, senso di impotenza. Sentimenti che un’uscita del Regno Unito dall’Europa non potrebbe che rafforzare. Ecco perché i contrasti e i silenzi dei nostri governanti sono inquietanti. Possiamo non sapere quale sia la diagnosi giusta. Ma almeno un paio di cose le sappiamo. La prima è che la disgregazione dell’Europa non è la soluzione. La seconda è che una diagnosi condivisa, che permetta di formulare una politica coerente, è la condizione minima per restituire un po’ di speranza ai popoli europei
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